Sto scendendo sul greto dell’Arno
nel cuore della città.
Dimentico la civiltà e lascio che l’incantesimo sottile della
natura, di cui l’uomo non potrà mai dominare il fervore vitale, mi
pervada. E sono felice di calcare la terra umida e nuda, di
respirare il vento di primavera in questa giornata uguale a tante
altre ma irripetibile.
Chiamo i miei gatti con l’entusiasmo di un bambino. Spuntano, uno
dopo l’altro, dietro le quinte d’erba ormai rigogliosa.
Mi osservano attenti, la testa eretta e i grandi occhi spalancati;
mi riconoscono e corrono verso di me.
Arrivano per primi i due più confidenti, quelli che non temono le
carezze; ultimi restano i sospettosi
mentre aspettano che me ne vada dopo aver sistemato il cibo nei
recipienti improvvisati.
Così faccio e allontanandomi li conto.
Otto. Otto piccole tigri che vivono libere, senza topi da cacciare
perché la zona è derattizzata. Con tanti pericoli, primo fra tutti
l’uomo.
L’uomo del veleno, delle macchine, l’uomo dell’indifferenza, l’uomo
senza amore.
Allora, quando penso all’amore, immagino una risposta sprezzante da
un coro di voci: “Amare gli animali, la natura? Agli uomini bisogna
pensare………” Tutto condito con ironia e acidità.
Penso alle parole di Albert Einstein, tanto chiare e incisive,
soprattutto considerando che sono espresse da un uomo abituato alla
razionalità: “Quando si tratta della verità e della giustizia non
c’è distinzione fra grandi problemi e i piccoli perché i principi
generali che riguardano l’azione dell’uomo sono indivisibili”.
Mi angoscia la perdita di umanità e di senso morale che l’uomo
dimostra.
Vado avanti lungo la riva, verso la coppia di germani reali in abito
nuziale che mi osserva e si allontana.
Getto nell’acqua pezzetti di pane e proseguo la mia passeggiata per
non disturbare.
Ondeggiano silenziosi, approdano alla riva scoprendo le zampe
arancio. Un attimo sostano tra i ciuffi d’erba per riprendere la
lenta, serena navigazione sull’acqua verde cupo in una dimensione di
vita a noi sconosciuta.
Sembra che niente disturbi il contrasto acuto di questo miniuniverso
naturale incastonato nella città.
Sopra i germani freme una ballerina bianca, immobile nell’aria.
Quando mi avvicino, lentamente riprende quota e seguendo l’onda di
una rotta immaginaria, si perde di là dal fiume.
Vado verso il ponte per sorprendere il martin pescatore sul suo
consueto posatoio e, camminando, osservo il sentiero per scansare
vetri, siringhe, poltrone e oggetti d’ogni genere.
Mi imbatto in un merlo morto. Perché?
Penso subito ai veleni chimici. Il giallo solare del becco è
esaltato dal nero piumaggio.
Un minuscolo insetto sta penetrando nell’occhio spento.
Intorno al merlo penne e piume mi fanno pensare all’agguato di un
predatore. Se i gatti l’hanno ucciso la pena non è troppo forte. Non
abbiamo potere noi creature sulle leggi della natura.
Continuo il mio sentiero sul fiume, in solitudine e scorgo tra
l’erba un’altra vittima. Una lucertola intatta.
Il martin pescatore ormai da molti giorni non frequenta più il
posatoio e non potrò godere dello sfolgorante luccichio rosso e
turchino della sua preziosa livrea.
Delusa, ripercorro il breve sentiero, ritrovo i miei gatti e li
saluto con effusione.
Bagliori d’oro erompono dagli occhi socchiusi e mi
irradiano.
Lascio allora che si fecondi in me una pienezza d’amore di cui solo
l’innocenza e la bellezza conoscono il segreto.
maggio 1990
Carla